Per conoscere la storia di questo blocco di granito, vi riproponiamo le parole di Giorgio Mongardi, dipendente del settore di Snamprogetti che ebbe l'incarico di costruire la prima base permanente Italiana di ricerca scientifica in Antartide.

«Al tempo, nel 1986, lavoravo in Snamprogetti – società di ingegneria del gruppo Eni oggi confluita in Saipem – in un settore specializzato nella costruzione di impianti prevalentemente petroliferi. Avevo 32 anni e il lavoro mi aveva portato a vivere in Egitto, Nigeria, Russia, Algeria e Iraq.

La Snamprogetti ebbe l’incarico dall'ENEA di progettare, fornire i materiali e realizzare la prima base permanente Italiana di ricerca scientifica in Antartide, il mio settore ebbe l’incarico di costruirla.

Nei primi mesi del 1986 il mio responsabile di allora, l'Ingegner Gianfranco Berlinzani, mi propose il ruolo di responsabile della costruzione e quindi della relativa organizzazione dell'imminente seconda spedizione in Antartide, prevista per la fine di novembre di quell'anno all'inizio estate australe. Dopo lo scontato stupore – nonostante l’esperienza in luoghi “scomodi”, l’Antartide era un mondo ignoto a noi tutti – decisi di accettare. Si iniziò subito con la preparazione di materiali, mezzi di cantiere e attrezzature, il tutto imbarcato un mese prima della partenza sulla nave mercantile rompighiaccio Finnpolaris al porto di Genova. Seguirono la selezione del personale specializzato, nonché i corsi di sopravvivenza in climi estremi presso la Scuola Militare Alpina di Aosta e alcune complesse visite mediche presso l’Ospedale Militare del Celio a Roma. Frequentai anche un corso per la guida di mezzi speciali su neve e ghiaccio in Germania. La base prefabbricata, realizzata in moduli componibili da un’azienda in provincia di Varese, fu spedita a Genova e caricata sulla Finnpolaris.

Partimmo dall’aeroporto di Malpensa il 22 novembre con destinazione Christchurch in Nuova Zelanda per imbarcarci successivamente sulla Finnpolaris, che ci attendeva al porto di Lyttelton, nell'isola meridionale della Nuova Zelanda. Il nostro team era composto da ventun tecnici. A bordo eravamo in settanta tra ricercatori, docenti universitari, militari (tra i quali un medico), guide alpine, personale ENEA, personale CNR, elicotteristi neozelandesi ed equipaggio finlandese. La navigazione per raggiungere la Baia di Terranova in Antartide – territorio al tempo rivendicato dalla Nuova Zelanda e concesso all’Italia – durò circa dieci giorni. Il viaggio nel primo tratto dei circa 3mila chilometri di mare che separano la Nuova Zelanda dalla costa Antartica è sempre molto agitato, con onde alte anche dodici metri. La navigazione, poi, più calma per via del pack frammentato alla deriva e dei relativi iceberg, diventa lenta e pericolosa a causa dello spessore del ghiaccio che potrebbe danneggiare lo scafo, come poi successe durante una successiva traversata. L’area prescelta per la costruzione della base nel corso della precedente spedizione Italiana era su un piccolo promontorio granitico lungo la costa. L’accesso all’area sarebbe stato possibile solo scaricando i materiali e i mezzi sul pack ancora compatto e, successivamente, dopo averlo percorso per circa due chilometri, sulla piccola spiaggia della Tethys bay situata sul versante opposto all’area su cui sarebbe stata realizzata la base. Per raggiungerla avremmo dovuto superare un passo che attraversa una gola situata tra due colline.   

Ed eccoci al sasso: il passo non era praticabile con i mezzi perché costellato da sassi granitici di grosse dimensioni che ostruivano il passaggio. Per liberare la pista furono necessari quattro giorni di ininterrotto lavoro di sbancamento, con turni che coprivano le 24 ore per sfruttare la continua luce del giorno. È in quella circostanza che il nostro escavatorista friulano Daniele Badini mi fece notare il sasso in granito del peso di circa tre tonnellate. modellato dal vento e di forma particolare. Dopo aver ricevuto l'autorizzazione dal capo spedizione ENEA, decidemmo di caricarlo in un container vuoto che, a fine spedizione, sarebbe stato riportato con i nostri mezzi di cantiere in Italia, presso la nostra base di San Giuliano Milanese, dove sarebbe rimasto fino al 1990, quando il settore venne trasferito in un'altra sede e la roccia fu trasportata nell’aiuola antistante l’ingresso del III Palazzo Uffici, sede in passato della Snamprogetti.

La spedizione si concluse dopo circa tre mesi di assenza dall’Italia. Nonostante le notevoli difficoltà, con l’impegno di tutti e in un breve lasso di tempo riuscimmo a realizzare la base permanente (allora battezzata come Baia di Terranova) e quindi consentire all’Italia di essere ammessa nel 1987 come Parte Consultiva al Comitato scientifico per la ricerca in Antartide – SCAR (Scientific Committee on Anctartic Research)

Con la Snamprogetti partecipai alle successive tre spedizioni finalizzate alla realizzazione di nuovi impianti tecnologici, capannoni, serbatoi per lo stoccaggio di combustibili, piazzali, una galleria nel granito per l’installazione di tre sismografi, un pontile, un helipad e l’espansione della base.

Le spedizioni scientifiche Italiane in Antartide proseguono e la base – dedicata nel 2005 alla memoria dell'Ingegnere di ENEA Mario Zucchelli – è tuttora operativa e frequentata da numerosi ricercatori nel corso delle estati australi. Oggi è raggiungibile comodamente dalla Nuova Zelanda in aereo con circa sei ore di volo.

Il sasso, a futura memoria, ricorderà questa storica, rischiosa e affascinante avventura frutto dell’ingegno Italiano».